lpr.com
  • indexI Green Day pubblicano “Demolicious” una raccolta di 18 tracce demo registrate agli studi Jingletown di Oakland, CA, nel 2012 durante le sessioni per la trilogia ¡Uno!, ¡Dos!, ¡Tré! Recensire positivamente una raccolta di brani demo è del tutto una cosa anormale avendo, già da tempo, gli album originali e l’orecchio allenato a certi suoni e livelli musicali.

    Cosa dire di questa raccolta? La cosa che emerge immediatamente  è l’odore di cantina e amplificatori combo che ovattano per bene un suono low-profile, un ritorno alle atmosfere di 1,039/Smoothed Out Slappy Hours e Kerplunk!, quando con 1000 dollari registravano qualcosa come 300 canzoni da 1 minuto e mezzo ( tempo netto )…erano semplicemente i Green Day. La cosa sconvolgente è che questa scaletta sembrerebbe la track list perfetta per un singolo album, non una trilogia che è affondata più velocemente del Titanic non lasciando alcun sopravvissuto a galla. Ecco ciò che mi piace di questo album, la “compattezza trasandata” che creano i singoli pezzi, riportando la mente agli arbori del trio californiano. Presenti nell’album anche un inedito “State of Shock”, brano che avrei visto perfettamente in un album come Warning e la versione acustica di “Stay the Night”.

    Mi chiedo: basta una registrazione non professionale per migliorare delle canzoni? Evidentemente si e questa ne è la prova concreta. Per la cronaca, canzoni oscene come “Oh Love” non guadagnano punti nemmeno con un suono meno professionale…( mi sembrava giusto dirlo ).

     

    R.M.

    VOTO: 6,5/10

     

    Tracklist:

    1. 99 Revolutions
    2. Angel Blue
    3. Carpe Diem
    4. State of Shock (unreleased b-side)
    5. Let Yourself Go
    6. Sex Drugs and Violence
    7. Ashley
    8. Fell for You
    9. Stay the Night
    10. Nuclear Family
    11. Stray Heart
    12. Rusty James
    13. Little Boy Named Train
    14. Baby Eyes
    15. Make Out Party
    16. Oh Love
    17. Missing You
    18. Stay the Night (acoustic)

  • Atreyu-Long-Live-2015Bentornati! E’ questo ciò che penso subito dopo il primo ascolto di “Long Live”, nuovo disco degli Atreyu, metalcore band che ha raggiunto il proprio apice di fama nella metà degli anni 2000, spalla a spalla con gli altrettanto bravi Avenged Sevenfold.

    Senza troppi fronzoli: il disco è una legnata! La band è riuscita a mantenere il proprio stile senza risultare obsoleta, attingendo qua e là da quello che è il metalcore degli ultimissimi anni. Il loro marchio di fabbrica resta la tanto unica quanto stupenda voce “clean” del batterista Brandon Saller, che va a far esplodere più o meno qualsiasi ritornello dei dodici pezzi che compongono “Long live”, dialogando egregiamente con le urla del frontman AlexVarkatzas. “Do you know who you are”, “Live to labor” con il suo feroce breakdown, “I would kill/lie/die for you”, “Brass Balls”, “Cut off the head” dalle sonorità molto Bring Me The Horizo, sono i punti salienti del lavoro, nonostante i restanti pezzi mantengano il livello davvero alto.

    “Congregation of the damned” li aveva fatti smarrire, “Long live” li ha fatti ritrovare…ancora, bentornati!

    Voto: 8/10

    Thomas Poletti

    www.atreyuofficial.com

    Atreyu long live
  • teenage_bottlerocket_tales_from_wymoning_cover_use_thisAscoltare un disco dei Teenage Bottlerocket è come avere un dèjà vu di mezz’ora. Ok, questa frase può suonare piuttosto negativa, ma in realtà non lo è: mi piace infatti che band del genere (così come Bad Religion e NOFX, per citarne giusto un paio) abbiamo lavorato sodo per costruire la propria carriera su un determinato sound, facendolo proprio e rivendicandolo come marchio di fabbrica.

    La band del Wyoming l’ho sempre concepita, ovviamente con le dovute proporzioni, come il prototipo “Ramones del 2000”: i tre-accordi-e-via, le canzoni brevi ed incalzanti e la ricerca di melodie piuttosto semplici non mi fanno pensare ad altro. Come anticipato, anche in questo disco troverete tutti questi ingredienti: “Haunted House”, “Nothing Else Matter (When I’m With You)”, “Can’t Quit You”, “I Found The The One” entrano subito in mente, così come sostanzialmente il resto delle canzoni.

    Senza sorprese, senza delusioni: that’s Teenage Bottlerocket!

    Voto: 7/10

    Thomas Poletti

    www.teenagebottlerocket.com

    Tales From Wyoming teenage bottlerocket
  • ymas_cavalieryouthAttendevamo questo nuovo lavoro da molto tempo e, se proprio dobbiamo dirla tutta, le aspettative non erano altissime. La band inglese aveva dato segni di “debolezza” musicale lasciando Epitaph per pubblicare l’album “Sinners Never Sleep”, disco che non ha praticamente lasciato traccia nella scena.
    Cavalier Youth rispecchia perfettamente questa tendenza verso un easy-listening caratterizzato da melodie vocali (veramente) imbarazzanti dal punto di vista “dell’orecchiabilità-al-primo-ascolto” e dall’assenza di chitarre elettriche degne di nota. Possiamo ritrovare qualche idea che caratterizzò il loro suono ma, sembra un eco ormai lontano e sbiadito.

    Il problema principale è affiancare questi YMAS a quelli dei primi album, dischi caratterizzati da una freschezza ed un entusiasmo incredibile, così energici da poter trasformare canzoni “easy” come “Underdog” o “Stay with me” (già di per se una specie di ballad) in qualcosa di veramente interessante e piacevole. I brani non rimanevano in testa per la loro semplicità ma per una carica sonora ed emotiva d’impatto.
    Per concludere, Cavalier Youth suona veramente come il classico compitino realizzato senza alcuna fatica e studiato un po’ troppo a tavolino per “piacere” ed ampliare il target di ascolto. Sicuramente, nelle rock-chart inglesi, l’album troverà molti appigli per salire fino alla vetta e per rimanerci. Ma, ce n’era davvero così bisogno?

    Voto: 4,5/10

    R.M.

    www.youmeatsix.co.uk

  • FallingfashionRonnie Radke e la sua band ritornano sulle scene con il secondo disco “Fashionably Late”; personalmente ho sempre visto con diffidenza i progetti del sovra citato singer che già dai tempi degli Escape The Fate si è fatto notare principalmente per il look e per quanto poi gli successe nella vita privata. Una rockstar dei nostri tempi ma con decisamente poche idee musicali interessanti.

    In questo lavoro in realtà ci sono diverse sfaccettature e spunti; i Falling In Reverse vengono inseriti solitamente nel calderone post-hardcore, ma a parte scream o break down qua e là il resto è tutt’altro. Synth un po’ ovunque, talvolta persino in sovrapposizione ai pochi soli di chitarra. Con l’iniziale “Champion” diciamo che avrete una sintesi di tutto quello che andrete ad ascoltare nelle restanti tracce del disco. A mio parere una gran confusione, un pessimo mix di parti più melodiche e parti più “aggressive”. Tuttavia il peggio credo lo si raggiunga proprio quando nel bel mezzo della canzone vengono inseriti dei versi rap che probabilmente sono la nuova frontiera che il leader Ronnie Radke sta scoprendo. Si susseguono tracce abbastanza anonime, qualcuna totalmente pop/dance e fra le altre si può trovare uno strano “esperimento” come “Game Over”, pezzo che probabilmente stonerebbe anche in una vera sala giochi.
    Si salvano proprio per il rotto della cuffia forse solo “Fashionably Late” e “Born To Lead” le quali almeno hanno delle melodie vocali accettabili e dei discreti ritornelli. Come detto in precedenza dai Falling In Reverse non mi aspettavo granché ma visto l’etichetta discografica per cui viene pubblicato almeno qualcosa di accettabile. Perdoniamo alla Epitaph Records questa evitabilissima uscita discografica perché nei mesi scorsi hanno dato alla luce ottimi lavori come i nuovi album degli Alkaline Trio o dei Bad Religion.

    Un disco per i fan (quanto numerosi?) di Ronnie Radke e del suo apparire; già,tanta apparenza ma veramente poca sostanza.

    Voto: 4/10

    David Lorandi

    fallinginreverseofficial.tumblr.com

    Epitaph Records Escape the Fate Falling in Reverse Fashionably late post hardcore Ronnie Radke
  • Rancid_Honor_Is_All_We_Know_Album_ArtworkRieccoli, Tim e la sua gang, tornare con un nuovo disco…finalmente aggiungerei. Più di cinque anni separano questo “Honor Is All We Know” dal precedente “Let The Dominoes Fall”, a sua volta distante sei anni da “Indestructible”. Un vizio quindi, quello di tenere i numerosi fan sulle spine per troppo tempo. Sui Rancid c’è davvero poco da dire: band punk per antonomasia, è a mio avviso una di quelle poche icone rimaste che, nonostante i tempi passino e le mode cambino, restano sempre ancorate alle proprie radici.

    Radici fermamente saldate, in questi 14 pezzi, ai Rancid di “Indestructible” e “Rancid” (che per tutti è “Rancid 2000”) più che alle sonorità più reggae-ska-punk della precedente fatica: “Evil’s My Friend” e “Everybody’s Sufferin’” sono gli unici due pezzi che seguono il trend appena descritto, forse un po’ fuori contesto se analizziamo tutto l’album, ma comunque piacevoli. “Back Where I Belong”, “Honor Is All We Know”, “Collision Curse” sono i veri cavalli di battaglia, le migliori insomma, seguite a ruota dalle più che ottime “Raise Your Fist” (“pezzo-aizza-folla” da concerto), “Malfunction”, “Diabolical Dance” e dalle sinistre “Face Up” e “Already Dead”. Gli elementi presenti in questo composto punk sono quelli che hanno contraddistinto da sempre i quattro californiani: la voce nicotinica e graffiante del buon Tim, chitarre non troppo elaborate (di sostanza diciamo), un Matt Freeman al basso che è sempre un piacere e la parte batteristica nei limiti di ciò che il genere richiede.

    Piacevole, incalzante e fresco, nonostante le primavere sulle spalle della band siano ormai 23. Lunga vita ai Rancid.

    Voto: 7,5/10

    Thomas Poletti

    www.rancidrancid.com

    Honor Is All We Know punk rancid
  • we-are-the-ocean-arkNuovo disco per gli inglesi We Are The Ocean, band che ha conosciuto un notevole cambiamento da quello che fu il proprio stile nei primi anni di vita: da un post-hardcore con parti in screamo al rock del precedente “Maybe Today, Maybe Tomorrow”, confermato in questo “ARK”. Vista pochi mesi fa in quel di Brescia, la band capitanata da Liam Cromby si assesta su questo genere musicale, proponendo qualcosa di davvero interessante.

    La prima band che mi viene in mente ascoltando questo disco sono i The Gaslight Anthem, in quanto trovo diversi punti comuni ai due progetti: un rock vecchio stampo, grezzo al punto giusto ma in grado di gestire bene i momenti in cui bisogna “spingere” e quelli in cui bisogna “fermarsi”. In sostanza “ARK” è questo, rock carico di energia guidato in maniera egregia dalle fantastiche abilità canore del frontman (live è davvero fenomenale): “Ark”, “Do It Togheter”, “I Wanna Be”, “Wild” e “Hope You’re Well” sono i migliori pezzi, accompagnati dalle restanti tracce in modo del tutto degno.

    Un ottimo disco, in grado di farci sentire qualcosa di “old” senza però stancare. Promosso!

    Voto: 7,5/10

    Thomas Poletti

    www.wearetheocean.co.uk

    ark We Are The Ocean
  • ChunkpardonLe aspettative createsi attorno al nuovo disco del quintetto francese erano notevoli; con il primo disco “Something For Nothing” la band ha ottenuto un successo davvero poco prevedibile: distribuzione in tutto il mondo, sbarco negli USA con tanto di partecipazione al Warped e un tour da spalla agli A Day To Remember (non l’ultima band in circolazione, ecco).

    In virtù di tutto ciò, “notevoli” è quindi una parola che si accosta di diritto alle aspettative del pubblico per questo “Pardon My French”, che esce a circa due anni e mezzo di distanza dal precedente lavoro.

    La produzione del disco è stata affidata a Joey Sturgis, nome di spicco nel mondo metalcore odierno: il sound dell’intero lavoro è di fattura pregevole e (ovviamente!) decisamente migliore rispetto a “Something For Nothing”, che praticamente è stato un prodotto home-made.
    Gli elementi caratterizzanti dei CNCC restano gli stessi: alternanza sistematica tra voci pulite, ultra-melodiche e growl, soprattutto in occasione dei breakdown che sono diventati ormai un marchio di fabbrica (il finale di “I Am Nothing Like You” può essere un buon esempio). La cosa che mi ha piuttosto sorpreso è stata la completa eliminazione delle parti di synth, presenti in quantità nel disco precedente.
    I brani potenzialmente estraibili come singoli sono numerosi: dal già utilizzato “Restart” a “Haters Gonna Hate”, da “Reasons to Turn Back” a “The Progression of Regression”.
    Meritevole di menzione è l’artwork del disco: sia la copertina che il titolo tendono a enfatizzare l’appartenenza nazionale, in modo da sottolineare uno dei fattori in grado di differenziarli nella scena alternative statunitense.

    La band supera a pieni voti la prova “secondo disco”, confezionando un lavoro decisamente sopra la media: VIVE LA FRANCE!

    Voto: 8/10

    Poletti Thomas

    www.facebook.com/cnccband

    chunk chunk no captain chunk France goonies Joey Sturgis pardon pardon my french
  • DookiePREFAZIONE:

    17 maggio 1994 – Mezzago – Milano

    Sul palco del Bloom di Mezzago sta suonando un gruppo californiano, per lo più sconosciuto ai ragazzi presenti in sala (una cinquantina massimo).

    Da circa 2 mesi è uscito il loro 3° disco ed ora sono in tour promozionale.
    Dopo aver condiviso molte date negli States con i Bad Religion (tour nella seconda metà del 1993), l’avventura on-the-road li porta in Europa, per la prima volta come head-liner, artefici del loro stesso cammino.
    Questa nuova serie di date riporta lo stesso nome del disco, prodotto, per la prima volta nella loro carriera da Reprise Records (distribuito da Warner Bros) una major: ma, in Europa, o per lo meno in Italia, questo balzo di carriera e di popolarità non si è ancora fatto sentire.

    In Italia, nella prima metà del 1994, i “Green Day” e il nuovo album “Dookie” stanno tra il “no…mai sentiti” e il “io conosco solo i Ramones”.

    LONGVIEW, BASKET CASE e WHEN I COME AROUND

    Passano le settimane ed i singoli, che nelle rock chart Statunitensi scalano le posizioni, arrivano nelle nostre radio e la reazione degli ascoltatori è semplice, come se fosse già stata scritta:
    La miccia accesa qualche settimana prima arriva a fine corsa…e Dookie esplode come una bomba.
    Simbolo testuale di questo disco è la frase di apertura di “Burnout”: “ I DECLARE I DON’T CARE NO MORE”: parole che rappresentano a pieno lo stato d’animo dei ”giovani” anni 90, frustrati, apatici, arrabbiati, offuscati da un periodo politico ed economico insoddisfacente.
    Senza motivazioni reali non si può andare avanti, si finisce in turbinio di depressione, voglia di evadere da tutto e da tutti attraverso le vie più disparate; da qui emergono i testi di “Longview”, “Chump”:

    “I GOT NO MOTIVATION, WHERE IS MY MOTIVATION, NO TIME FOR THE MOTIVATION, SMOKING MY INSPIRATION”

    “WELL MAYBE IT’S JUST JEALOUSY, MIXED UP WITH A VIOLENT MIND

    A CIRCUMSTANCE THAT DOESN’T MAKE MUCH SENSE, OR MAYBE I’M JUST DUMB”

    I testi non lasciano alcuna interpretazione al caso, ciò che viene scritto è ciò che vuole essere rappresentato, il tutto racchiuso una sequenza isterica di 3 singoli e semplici accordi: questi sono i Green Day di Dookie; così il trio californiano esprime ciò che ha dentro.

    I sentimenti di Billie Joe vengono catapultati a livello globale dai singoli “Basket Case”, dalla loro miglior canzone mai prodotta “When I Come Around” e “She”; sono sinceri, sono dannatamente sinceri e non nascondono alcuna ipocrisia.

    Questo voglio riconoscere ad un album come Dookie, la sincerità di essere un disco cattivo, arrabbiato, vero in tutti i suoi particolari, in ogni sua sfumatura testuale e non.
    Voglio riconoscere la capacità di trasportare milioni di persone afferrandole per i capelli, portandole davanti ad uno specchio rotto per mostrargli la loro stessa immagine sbiadita e svegliarle da un letargo che durava da troppo tanto tempo, insegnando che il modo migliore per ricominciare a respirare, a volte, è proprio fare il contrario di ciò che si riterrebbe giusto, fumandosi una dannata e sporca sigaretta con le orecchie che fischiano per il volume eccessivo.

    Questo slideshow richiede JavaScript.

    Foto by R.Magli – Live at Mediolanum Forum

    "Green Day" Basketcase Billie Joe Dookie LONGVIEW Reprise Records Warner Bros
  • wSBFRBuDopo varie vicissitudini legali tra la band e Victory Records, ecco che “Common Courtesy” vede la luce del sole (per ora solo in forma digitale), dopo essere restato al buio sullo scaffale di casa A Day To Remember per qualche mese; giunti al quinto album, i ragazzi di Ocala riescono, per l’ennesima volta, a centrare in pieno il bersaglio.

    Si parte subito in quinta: “City Of Ocala” e “Right Back At It Again” sono due bombe in pieno stile pop-punk, praticamente prive di breakdown e dal tasso melodico elevatissimo…inizio impeccabile, che si piazza in tempo zero nella mente dell’ascoltatore. Un cambiamento sostanziale quindi, un passaggio definitivo al pop-punk? Assolutamente no, e lo confermano le successive “Sometimes You’re The Hammer, Sometimes You’re The Nail” e “Dead And Buried”, che insieme alle varie “Life Lessons Learned the Hard Way” e “Violence” ricordano a tutti che la vena metal o hardcore che sia, è rimasta comunque presente. “Best Of Me” e “Life @ 11” fan tornare alla mente “What Separates Me From You”, così come “The Document Speaks For Itself” sembra essere un brano direttamente estratto da “For Those Who Have Heart”; non è finita qui, c’è spazio anche per le ballad, che rimangono completamente acustiche, vedi “I’m Already Gone” (fantastica!) oppure vedono il resto della band aggregarsi a Mr McKinnon, come in “I Surrender” e “I Remember”

    Gli A Day To Remember mi ricordano lo sceriffo degli ormai datati film western, che compare e detta la legge: la band, ormai sulla cresta dell’onda da parecchi anni, riesce, ancora, a tornare ed imporre i canoni di un genere dai limiti ormai alquanto permeabili. Non ne sbagliano uno.

    Voto: 8,5/10

    Thomas Poletti

    www.adtr.com

    A Day to Remember florida For Those Who Have Heart metal ocala pop-punk post hardcore
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Dropkick Murphys @ Live Club – Trezzo d’Adda ( MI )

  • 23/02/2015
  • di robertomagli
  • · LIVE REPORTS

Venerdì 20 febbraio, Live Club di Trezzo sull’Adda ( MI )

Un locale completamente gremito attende l’esibizione di una della folk rock band più importanti e conosciute del mondo. La serata ( SOLD OUT ) inizia con il cantautore Bryan McPherson, set acustico di circa 20 minuti nei quali emerge una dominante folk-punk che rimarrà nell’aria per tutta la serata. Lo stile richiama vagamente un Frank Turner nei momenti più “tranquilli”, quindi un folk acustico personale. Mi colpiscono i testi proposti, marcati e tendenzialmente taglienti nei quali spiccano un senso anti-politico e festaiolo ( con tutto ciò che ne comporta ) che già in passato avevano portato rogne al cantautore ( vedi l’annullamento del proprio live in apertura, sempre ai Dropkick, durante il tour americano ).

Le band di apertura che seguono, Blood or Whisky, formazione puramente irlandese, XXX dischi alle spalle e The Mahones propongono uno stile molto simile agli headliner della serata. Una musica ormai incanalata in certe regole folk-rock che raramente permettono di distinguere uno dall’altro ( non leggeteci nulla di negativo in questo, anzi, la capacità di comporre melodie che uniscono tutti gli stili del genere è di per se una componente fondamentale e professionale di queste band ). Segnalo la potenza vocale della cantante e fisarmonicista dei The Mahones.

Dopo una buona mezzora di “Let’s go Murphys”, cantata incessantemente dal pubblico, salgono sul palco, from Boston Massachusetts, i Dropkick Murphys.

Da subito si intuisce che lo spettacolo sarà decisamente diverso rispetto alla loro ultima apparizione in terra milanese ( 6 febbraio 2013 – Alcatraz di Milano ). Un suono più duro e tirato caratteristica la scaletta di 26 pezzi. La band inizia con con Out of Our Heads, tratta dall’ultimo disco Signed and Sealed in Blood ( 2013 ) per poi ripercorrere la propria discografia attraverso un alternanza di folk e tanto tanto rock. Canzoni come Citizen C.I.A. e Do or Die tengono il ritmo altissimo, scaldando una sala completamente Sold Out. Inutile citare la reazione alle hit ormai confermate come Rose Tattoo, The State of Massachiusetts, Johnny, I Hardly Knew Ya, I’m Shipping Up to Boston ( suonata da tutti i componenti delle band spalla ). In chiusura di serata la ormai storica Kiss Me, I’m Shitfaced preceduta da The Boys are Back ( suonata ad una velocità folle!!! ). Niente da aggiungere se non la mia personale impressione che questa band, se pur non modificando di molto il proprio stile stia raccogliendo i frutti di anni di lavoro in un ambiente che sta realmente capendo la loro capacità musica.

Scaletta della serata:

Intro: The Foggy Dew (The Chieftains song)
Out of Our Heads
Citizen C.I.A.
Sunday Hardcore Matinee
Rose Tattoo
Rocky Road to Dublin (traditional cover)
Walk Don’t Run
The State of Massachusetts
The Warrior’s Code
The Auld Triangle
Famous for Nothing
Peg O’ My Heart
God Willing
Caps and Bottles (performed by Bryan McPherson)
Do or Die
Memories Remain
Barroom Hero
The Gang’s All Here
Going Out in Style
Fields of Athenry
Johnny, I Hardly Knew Ya
I’m Shipping Up to Boston (with Bryan McPherson, Blood or Whisky e The Mahones al completo )

Encore:
The Boys Are Back
Kiss Me, I’m Shitfaced
Skinhead on the MBTA
If the Kids Are United

un particolare ringraziamento a Isabella di HUB.

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Foto di R.Magli

R.M.


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